5 dicembre 2008

E due sorti si mescolano, si confondono e precipitano.

Soggetto inquisito: Lolita, di Vladimir Nabokov




Il libro porta il suo nome. La narrazione inizia e finisce con la stessa parola: Lolita.
Ma chi è Lolita? Dico, oggettivamente. Perché Lolita non è, Lolita appare. È dipinta dalle parole di Humbert, che ne fa l'oggetto e soggetto della storia, ma non ne è la protagonista. Ogni cosa, ogni azione, ogni situazione, ogni sentimento... tutto è filtrato da lui, dunque è Humbert stesso il protagonista.
Lui è l'artista rossettiano consumato dall'ossessione, Lolita è la musa che, come Leanan Sidhe, succhia la sua vita in cambio dell'ispirazione. Con l'unica differenza che Dolore Haze non è una creatura sovrannaturale, ma una ragazzina pubescente come tante. Ma Humbert, ultimo fra i dandy, alla perpetua ricerca della sua donna fatale, si convince di averla trovata in lei e la trascina in un personale inferno di morbosità, struggendosi al contempo perché sa che il suo amore non sarà mai ricambiato.

È delizioso perdersi nell'onomastica, già cara allo stesso Nabokov:
Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.
Dolores ha un significato inequivolcabile e quasi preveggente. Dolly evoca la caratteristica di bambola, di giocattolo bellissimo e vuoto, che Humbert crede di possedere. E Lolita, che suona così simile a Lilith, il demone femminile per eccellenza, condannata ad essere ciò che è per la sua stessa, involontaria natura.
Ma la ninfetta cresce, non resta per sempre la bambola di cui Humbert si era a suo tempo infatuato, ed è allora che scopriamo la vera Lolita, o almeno un suo barlume. E scopriamo anche, inaspettatamente, che Humbert ne è davvero innamorato, benché sempre nel suo personalissimo modo anomalo e perverso... innamorato fino a condannare sé stesso per lei.

Lolita è questo ed altro ancora. Potrei perdere giorni e notti a scrivere di questo libro cercando invano di trasmettere le sensazioni che mi suscita... per altro inutilmente, perché questa è una di quelle opere che necessita di essere assimilata e interpretata da soli.
Quindi vi lascio con
l'ultima frase dell'incipit, la citazione che ritengo più accattivante:
Signori della giuria, il reperto numero uno è ciò che invidiano i serafini, i male informati, ingenui serafini dalle nobili ali. Guardate questo intrico di spine.



Sentenza: 10, ovvero questo è ciò che chiamo un Capolavoro, e la "C" maiuscola è assolutamente scontata

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